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VENERE SADICA E TACCHI A SPILLO

“Dategli una maschera, e vi dirà la verità” Oscar Wilde.

E in questo film di Polanski di maschere e verità sado-masochistiche svelate ve ne sono tante, diluite dalla coppia di attori che incalza e innalza sempre più il tono narrativo, portando ad altissimi livelli il climax.

In questa pellicola, Venere non indossa solo la pelliccia, come nel romanzo cui si ispira, ma prende la situazione in mano, impugna pistole e rovescia la scena.

Il film, con abilità e labilità, ci porta all’interno di un teatro, in cui si avvicendano: un regista teatrale alle prese con la sua prima pièce e un’attrice, arrivata dopo la chiusura di una disastrosa e infruttuosa audizione. La donna obbliga il regista a farle un provino e, inaspettatamente, si rivela perfetta per la parte, così i due proseguiranno oltre il provino, recitando gran parte del copione.

L’attrice e il regista inscenano i processi della relazione a due, si mettono a nudo, in una relazione antitetica e affatto equilibrata eppure dinamica, in cui il polo si sposta continuamente. All’inizio, ad esempio, è focalizzato sul regista, alle prese con l’audizione, dinanzi alle suppliche dell’attrice; successivamente, si concentra sulla donna, per la perfetta interpretazione che lei mette in scena.

Il soggetto al centro dell’azione si sposta lungo tutto il film, come una pallina da ping-pong; si passa dall’uno all’altro, sino a quando la maschera del regista si frantuma, rivelando il suo mondo interiore, fatto di pulsioni e perversioni.

Polanski mette in campo non solo un metafilm o un meta-teatro, ma molto di più.

Questo film sembra divenire il custode della sua idea di fare cinema: dare voce e sfogo al proprio mondo interiore, farlo rivivere sul palcoscenico, perché possa trovare il suo momento catartico, e forse risolutivo. Tuttavia, il tentativo può rivelarsi fallimentare, se ad accogliere il messaggio vi è una platea poco propensa o interessata ad ascoltarlo. Metaforicamente, infatti, l’attrice decide di non dar voce al mondo del regista, dicendogli che la parte non la riguarda e che lui è solo uno squilibrato irrisolto, che resterà per sempre (o per tutta la notte) legato, all’interno del teatro, ad un simbolo fallico, inteso come rivalsa femminista sull’uomo che travisa tutto ciò che invece il regista intendeva comunicare.

L’illusione del regista è quindi così grande, perché si rende conto di aver donato alla donna la chiave del proprio inconscio, senza che questa ne avesse cura, ma anzi, lei l’ha gettata via, uscendo dal teatro e sbattendo alle sue spalle quella porta tanto delicata.

Di riflesso, il cinema potrebbe vestirsi della stessa ingiustizia, quando si rivela incapace di accogliere i messaggi di un film, quando lo distrugge con schemi non voluti, alterando l’intento di un progetto cinematografico che schemi non ne aveva o ne aveva degli altri.

Un film che non richiama il precedente “Carnage”, se non per: la tecnica della sequenza in ambiente unico, pochi attori, rimandi teatrali e una sceneggiatura curata nel dettaglio.

Non resta che indossare una buona pelliccia o immaginare di averne una, come fa la protagonista, e poi sederci per godere questo film e in definitiva, assistere all’evoluzione (o involuzione?) del rapporto umano.

Marino Ceci

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