Che l’uomo sia un animale socievole è ormai assodato, ma da oggi ce lo dice ufficialmente la scienza, in seguito a un esperimento andato in scena ai confini del mondo: in Antartide.
Stiamo parlando del continente circostante il Polo Sud della Terra che raggiunge una superficie di oltre 14 milioni di km² che lo rende il quarto continente più grande anche se non ha una vera popolazione, dato che si contano alcune migliaia di persone, costituite da ricercatori e scienziati.
Proprio in questo paesaggio polare, bianco e desolato, un team di otto scienziati e ricercatori e un cuoco ha vissuto e lavorato presso la stazione di ricerca tedesca Neumayer III per 14 mesi e ha rivelato un piccolo, ma interessante risultato che riguarda il cervello umano.
“L’isolamento sociale e l’ambiente monotono sono la cosa più vicina sulla Terra a ciò che un esploratore dello Spazio può sperimentare” afferma il fisiologo Alexander Stahn, che ha iniziato la ricerca mentre era alla Charité-Universitätsmedizin di Berlino, interessato a comprendere gli effetti di un tale viaggio sul cervello.
Anche in passato degli studi effettuati sugli animali hanno rivelato che condizioni simili possono danneggiare l’ippocampo, un’area del cervello cruciale per la memoria e la navigazione. “Ad esempio, i topi apprendono meglio quando sono ospitati da compagni o in un ambiente arricchito rispetto a quando sono in gabbia” afferma il fisiologo. Ma se questo valesse anche per il cervello di una persona finora era sconosciuto.
Stahn, ora alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, con i suoi colleghi hanno utilizzato la risonanza magnetica per acquisire punti di vista sui membri del team. In media, un’area dell’Ippocampo nell’equipaggio si è ridotta del 7% durante la spedizione, rispetto a persone abbinate per età e sesso che però non sono rimaste alla stazione.
Questo risultato dimostrerebbe quindi che un uomo socialmente isolato in un paesaggio polare e costretto a restare all’interno di una struttura di ricerca antartica per oltre un anno, ne uscirebbe con il cervello “ristretto”.
Il capo team ci tiene a sottolineare che esistono buone ragioni per credere che questo cambiamento sia reversibile. “Mentre l’ippocampo è altamente vulnerabile a fattori di stress come l’isolamento” dice “è anche molto sensibile alla stimolazione che deriva da una vita piena di interazioni sociali e una varietà di paesaggi da esplorare.”
Lo studio è stato riportato online recentemente sul New England Journal of Medicine.
Riccardo Pallotta