L’invidia è il frutto di un desiderio che non può essere soddisfatto, un sentimento negativo, scriveva Nietzsche nel saggio “Umano, troppo umano”, che nasce quando «qualcuno è desideroso ma non ha prospettive». È il più contorto meccanismo di difesa prodotto dalla nostra mente: svalutare ciò che non riusciamo ad ottenere e che gli altri hanno ottenuto, uno dei sette vizi capitali, la «brutta bestia» che, a detta del poeta romano Trilussa, «Te fa passà la vita a fa li conti de quanto cianno l’altri».
Spesso, tuttavia, a risentirne è proprio colui che ne è l’oggetto: l’invidiato, che in balia delle maldicenze, si preoccupa continuamente di ciò che pensano gli altri sul suo conto.
Per evitare di entrare in questo schema psicologico paralizzante per l’esistenza umana, sarebbe forse il caso di comprendere il nostro reale valore e rispondere, con fare arguto e sprezzante, come la Farfalla protagonista di una tra le più significative poesie dialettali di Trilussa: La Mosca invidiosa.
La chiave di lettura della sua poetica e dei suoi versi satirici risiede nel genere della favola: figura di spicco di questa poesia è, infatti, una Mosca invidiosa di una Farfalla piena di colori…
«Tu – Je diceva – te sei fatta un nome perché te la svolazzi tra li fiori: ma ogni vorta che vedo l’ale tue co’ tutto quer velluto e quer ricamo, non me posso scordà quann’eravamo poveri vermetti tutt’e due…»
Una battuta avvilente e denigratoria, mirata a voler smantellare l’autostima della povera avversaria, ma forse, suggerisce Trilussa, dovremmo imparare a farci scivolare addosso la cattiveria altrui e provare a rispondere con coraggio, fermezza e fiducia in noi stessi proprio come la sua Farfalla: «Già – disse la Farfalla – ma bisogna che t’aricordi pure un’antra cosa: io nacqui tra le foje d’una rosa e tu su ‘na carogna!».
Ambra Belloni