Chi era Antonio De Curtis di ceto nobile essendo un principe ereditario, in arte Totò, attore che visse tra tribolazioni e grandi successi?
È stato un maestro della comicità senza parolacce? Un instancabile lavoratore dello spettacolo, un passionale? Un simbolo del teatro, del varietà e dell’avanspettacolo?
Ricordare una celebrità che ha arricchito la cultura teatrale, cinematografica, televisiva e radiofonica non è solo elencare le sue rappresentazioni o raccontare la miseria del rione di Napoli dove era venuto al mondo il 15 febbraio 1898 o l’essere morto popolare e benestante a Roma all’età di 69 anni, quanto scrivere dell’uomo buono, altruista, poeta, comico, drammaturgo e sceneggiatore per elogiarne lo spessore artistico ed umano.
Nato da una relazione “proibita” tra Anna Clemente e il marchese Giuseppe De Curtis, il futuro genio della risata, da bambino, visse tra i vicoli del Rione Sanità di Napoli insieme agli scugnizzi della sua età, condividendo scorribande e vita grama.
I titoli nobiliari gli vennero giuridicamente riconosciuti nel 1945.
Andare a scuola non era di suo gradimento e quando una volta venne bocciato, in quarta elementare, gli fu imposto di ripetere il terzo anno. Diceva, giocando con le parole, che era stato retro-cesso.
Tuttavia, arrivò a frequentare il ginnasio nel collegio Cimino sito dentro il vecchio palazzo Caracciolo del principe di Santobuono, ma senza alcun risultato, sicché il padre, che sino ad allora si era sempre disinteressato, lo obbligò a trovarsi un lavoro: scelse di fare l’imbianchino, ma la sera si ritrovava con gli amici a raccontare barzellette e ad inventarsi storie per far ridere.
Ancora giovane, con il nome d’arte di Clerment, iniziò ad esibirsi in vari locali, imitando il macchiettista, contorsionista e trasformista Gustavo De Marco.
Ma la sua fantasia andava oltre: trascorreva ore davanti ad uno specchio per studiare la mimica facciale dei personaggi più popolari che incontrava ogni giorno, dal lattaio al commerciante, al mariuolo, al saltimbanco, al venditore ambulante.
Scrisse lui stesso nella bellissima “Preghiera del clown”: “Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C’è gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla”. La sua faccia era il risultato del naso e della mandibola rotte scherzando a fare boxe.
La maschera di Totò, con la bombetta in testa, il tight largo e il bastoncino di bambù, seppe interpretare il cambiamento dei tempi e fece parte di diverse compagnie dell’avanspettacolo e della rivista, senza dimenticare le numerosissime interpretazioni cinematografiche.
Gli insuccessi nei teatri napoletani lo convinsero, a metà degli anni ’20, a trasferirsi a Roma per trovare maggiore fortuna. Ci volle del tempo, ma ci riuscì: ciò accadde quando recitò alla Sala Umberto e al Teatro Jovinelli. Qui gli spettatori apprezzarono Il bel Ciccillo, il Paraguai, Vicoli, Se fossi ricco, Cane e gatto, il Gagà, ecc.
Dopo la pausa della Prima guerra mondiale, alla quale non partecipò fingendosi epilettico, riprese con successo la passione per il teatro, ma l’esperienza della divisa militare lo portò a distinguere tra gli uomini che lottano per vivere e i caporali che sfruttano e maltrattano.
Ai trionfi artistici si unì l’amore per la cantante Liliana Castagnola che per lui, si legge nelle cronache, si suicidò.
Successivamente sposò Diana Rogliani dalla quale ebbe una figlia che chiamò Liliana. Ne seguì anche il divorzio a causa dell’incessante lavoro che troppo spesso lo portava via dalla famiglia, ma sembra anche per le ballerine che a lui piacevano tanto.
Il successivo matrimonio fu con la giovane Franca Faldini dalla quale ebbe un figlio, la cui morte prematura gli causò una fortissima depressione e per molto tempo rimase lontano dai palcoscenici.
Totò lavorò con quasi tutti i più grandi attori del suo tempo.
Il 15 aprile del 1967, dopo diversi attacchi cardiaci, si chiuse il sipario sulla sua vita.
Bruno Cimino