Gli anni a cavallo tra la fine del XX e gli inizi del XXI hanno determinato l’ingresso della tecnologia nella nostra quotidianità portando risvolti importanti nella formazione della mente delle nuove generazioni.
L’espressione “nativi digitali” è stata coniata dallo scrittore esperto di processi educativi Marc Prensky nel 2001. Con tale denominazione si indicano tutti coloro che sono nati in una società ormai fortemente pervasa
dalla digitalizzazione. I “migranti digitali” sono, invece, i soggetti cresciuti in una società ancora prettamente analogica, che hanno imparato a gestire gli strumenti digitali in età adulta. Non stiamo parlando semplicemente di due differenti generazioni, dove una può essere più pratica e una meno nell’uso delle nuove tecnologie, infatti essere dei migranti non implica necessariamente avere meno abilità dei nativi in questo campo. Ci stiamo riferendo ha due tipologie differenti di funzionamento del cervello che si sono strutturate in base all’ambiente in cui i soggetti sono cresciuti.
Mentre i migranti tendono a prediligere l’accesso alle informazioni in forma scritta i nativi, invece, a quelle in forma grafica. I primi tendono a concentrarsi su una sola azione per volta mentre i secondi a svolgerne
diverse contemporaneamente. I nativi, inoltre, concepiscono la conoscenza in maniera unitaria e non divisa in ambiti o settori come i migranti. Inoltre tendono a lavorare in gruppo in maniera più efficace.
In questa serie di caratteristiche differenti, secondo Prensky, sarebbe da individuare la causa del disagio che i giovani incontrano in ambito scolastico. In aula, infatti, vengono catapultati in un ambiente analogico in
linea con la generazione a cui appartengono i loro docenti, che viene così da essi percepito come estraneo. Dunque la svolta nel sistema educativo che da anni cerchiamo di perseguire attraverso l’attuazione di riforme, potrà esserci solo quando la scuola sarà in grado di strutturarsi secondo lo stile cognitivo che caratterizza le nuove generazioni.
Glenda Oddi