Nel Gujarat, patria del Mahatma Gandhi, uno stato indiano situato nella parte nord-occidentale del subcontinente, affacciato sul Mar Arabico, si trova una delle più raffinate produzioni di arte indo-musulmana, nata dal felice connubio tra differenti tradizioni artistiche e religiose. Si tratta della moschea di Sidi Sayyid ad Ahmedabad, risalente al XVI secolo, un gioiello di architettura arcuata con decorazioni che rivelano l’abilità degli scultori indigeni. Qui si possono ammirare delle finestre, uniche al mondo, che si ispirano ai jali o jaali, grate di pietra perforata, abbellite con stilizzati giochi geometici e floreali. Lo jali era particolarmente utilizzato in questa zona a causa del clima torrido perché aiuta ad abbassare la temperatura comprimendo l’aria attraverso i fori e per proteggere l’intimità degli interni. I musulmani al loro arrivo nel Gujarat, stabilmente nel XV secolo, trovarono un’abbondante presenza di templi hindu e jaina e gli artigiani reclutati tra la gente del luogo piegarono secondo il proprio gusto e credenze gli edifici commissionati dagli invasori che avevano bisogno di realizzare alcune strutture quali moschee, minareti e mausolei, per soddisfare le proprie esigenze religiose e cultuali. L’arte che nacque da questo felice incontro è ritenuta la “più indigenamente indiana” del subcontinente ed ha prodotto veri capolavori in gran parte derivati dal riutilizzo di tipologie e materiali di spoglio templare.
Sui muri perimetrali della moschea di Sidi Sayyid si aprono dieci splendide finestre semicircolari (3mx2m), in arenaria, traforate e decorate con motivi geometrici e vegetali. Tipologicamente si rifanno alle finestre del sole, gavâksha, tipiche dell’architettura buddhista, la cui struttura deriva dal kudu,o arco a ferro di cavallo, o dal dhanu,scodella dei monaci, e presentano i pennacchi abbelliti da medaglioni con petali di sacro loto, carico di implicazioni mistico-religiose tanto per gli hinduisti che per i buddhisti, ma accettato dai conquistatori musulmani perché non ne avevano compreso l’intrinseco significato (l’universo retto dalle divinità, Vishnu, la fioritura della Psiche ed il risveglio dello Spirito) mentre, in corrispondenza della chiave dell’arco, si evidenzia una graziosa foglia dell’albero di ficus religiosa, che ricorda l’illuminazione del Buddha, ornata con arabeschi di palmette. Due finestre, in particolare, presentano il soggetto della palma e del parassita, un fenomeno molto comune tra le piante in Oriente. Tecnicamente si tratta di un motivo decorativo indigeno entrato in maniera subdola nell’arte islamica. Si tratta del kalpalatā o urmīvelā, ossia il rampicante. L’estremo naturalismo di queste forme, un sensuale intreccio di foglie e volute foreali reperibile sia nei templi antichi ricavati in grotta sia in quelli all’area aperta o come ornamento nei soffitti, rientra perfettamente nelle concezioni dell’India, ma fu accettato dai musulmani ignari del loro simbolismo. In una è raffigurata una sola palma estremamente stilizzata in vivace contrasto con l’esuberanza della pianta che la sta soffocando fino ad ucciderla. L’albero centrale, dal fusto esilissimo, tenta di divincolarsi dai tentacoli del crudele aggressore che esce dal suo tronco con rami a spirale mentre le maldestre foglie e i fiori avvolgono ed incatenano la pianta centrale. Tutta la superficie disponibile è riempita da un’invasione di linee curve. L’altra finestra propone quattro esili palme attaccate dall’invadente produzione di rami, foglie e petali di tre sinuosi tronchi che si intervallano tra le palme. Erroneamente considerate simbolo dell’albero della vita, il motivo di questi jali allude al mistero della vita e della morte, della lotta disperata e della sopraffazione finale e sono la rappresentazione delle dure battaglie che uomini, animali e piante devono combattere quotidianamente.
Bruna Fiorentino