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LEOPARDI E IL SOGGIORNO ROMANO «HO TROVATO IL DIAVOLO PIÙ BRUTTO ASSAI DI QUELLO CHE SI DIPINGE»

Giacomo Leopardi non amava particolarmente Roma e non ne ha mai fatto mistero nei suoi scritti.

La città dei Papi e degli imperatori, ammirata da moltissimi scrittori, fu mal tollerata dal giovane poeta recanatese, che ne notò istantaneamente «l’orrendo disordine, la confusione, la minutezza insopportabile, la trascuratezza indicibile».

Vi si recò il 23 novembre 1822, con la speranza di trovare libertà e indipendenza economica, magari come bibliotecario alla Vaticana o come cancelliere del Censo, ma ogni sua idilliaca aspettativa venne repentinamente delusa.

Quasi totalmente indifferente alla magnificenza dei monumenti, Leopardi percepisce la città eterna come un deserto nella sua dimensione filosofica, dove «l’attirare gli occhi degli altri risulta impresa disperata».

Sentendosi interamente «solo e nudo» in mezzo ai suoi stessi parenti, si scopre gradualmente isolato in uno spazio non circoscrivibile, poiché la grandezza di Roma non fa altro che aumentare le distanze tra gli esseri umani: «Al passaggio in chiesa, per le strade non trovate una befana che vi guardi. Son passato spesse volte con amici belli ed eleganti vicino a donne giovani; le quali non hanno mai alzato gli occhi, e si vedeva che ciò non era per modestia ma per pienissima indifferenza e noncuranza».

Tuttavia, la cosa non spiacque particolarmente al poeta, che in una delle lettere al fratello Carlo si espresse con parole davvero poco lusinghiere nei confronti delle donne romane: «Le donne romane alte o basse fanno propriamente stomaco. Gli uomini fanno rabbia e misericordia».

In un carteggio con il padre Monaldo, che gli raccomandava di tenersi lontano dai pericoli e dalle seduzioni della capitale, rispondeva, rincarando la dose: «Stia di buon animo… Le dirò che ho trovato in Roma assai più insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quello che io mi aspettassi».

Probabilmente non gli sarebbe bastato un intero libro per descrivere la frivolezza di «quelle bestie» e di «tutti i propositi ridicoli dei loro discorsi». Deplorò gli sforzi degli studiosi romani, quasi tutti interessati all’archeologia e spese parole taglienti sulla corruzione del papato, parole che ancora oggi, inducono a riflettere: «Pio VI deve il suo cardinalato ad una civetta e si diverte a discorrere delle lascivie dei suoi cardinali e ci ride».

Sicuramente, come ha affermato la studiosa Fabiana Cacciapuoti, l’unico vero e significativo appagamento del periodo romano derivò dalla visita al sepolcro del Tasso (poeta da lui amatissimo), in Sant’Onofrio. La sua tomba fu raggiunta al termine di una lunga passeggiata solitaria, attraverso «una strada che prepara lo spirito alle impressioni del sentimento».

In una città «dissipata, oziosa, e senza metodo» fu gradito, almeno in quella circostanza, assaporare nuovamente il sapore della «vita raccolta».

Partirà dalla città sofferente, fiaccato nel corpo e nello spirito, per far ritorno alla sua Recanati. Vi ritornerà solo dieci anni dopo, insieme all’amico Ranieri, ma anche in quel contesto, Roma sarà sempre un «esilio acerbissimo».

Ambra Belloni

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