di Manuela Maccanti
Tutti conoscono la genialità di Leonardo da Vinci, poliedrico uomo di scienza, inventore e pittore rinascimentale che ci ha regalato dipinti immortali come la Gioconda o L’Ultima cena e ingegnose macchine volanti che hanno anticipato, di svariati secoli, l’attuale aerodinamica. Allo stesso tempo tutti credono che la paternità della nouvelle cuisine sia da attribuire a due critici gastronomici francesi, Gault e Millau, che per primi la sperimentarono negli anni Settanta.
Invece no. La rivoluzionaria scoperta di questo particolare tipo di cucina che privilegia spezie e pasti leggeri non nasce in Francia nel secolo scorso ma ha avuto origine 500 anni prima, tra i fornelli di un bizzarro e talentuoso buongustaio vinciano. Messer Leonardo, appunto.
Che sia una leggenda metropolitana o mera verità, c’è di certo che il suo amore per la cucina comincia già da bambino quando il nonno lo porta a visitare i mulini attorno a Vinci, suo paese natale, e lui assiste alla macinazione del grano e alle preparazioni di pane e pagnotte restando folgorato ogni volta. È alto una spanna e poco più quando Leonardo si diletta nel preparare gustosi manicaretti e dolcetti di marzapane per i familiari. Prelibatezze che non sono affatto male, a detta dei parenti anche se, per fortuna sua e pure nostra, il passatempo infantile non diventerà mai mestiere e il cappello da cuoco lui lo indosserà più per passione che per vocazione, scongiurando all’umanità il rischio di perdere uno dei suoi rappresentanti più illustri. Certo, quando si dedica a una cosa, Leonardo dà il meglio di sé. Lo dimostrano i numerosi taccuini dove ha annotato, con una precisione certosina e maniacale le dosi, gli errori nelle grammature e gli ingredienti delle sue ricette gastronomiche.
A lui si devono anche altre invenzioni, utili per agevolare il lavoro di cuochi e massaie in cucina. Quali? Il frullatore, il girarrosto, il macinapepe, il cavatappi, i coperchi per le pentole e molto altro ancora. Fa strano immaginarlo alle prese con mestole e scodelle piuttosto che coi suoi sofisticati macchinari da guerra e da volo ma, si sa, la creatività non ha confini. O almeno non li ha per lui, Mister Innovazione. Sono sue alcune bizzarre ricette come il “ghiro farcito, la torta d’api o la frittata dell’asino”, e preziosi consigli di etica e di buongusto che anticipano il più moderno Galateo. Le annotazioni del maestro Da Vinci per poter «inventare un coperchio per le pentole, permanente, indistruttibile, sempre reperibile, che non abbia bisogno di essere sostituito in continuazione» risultano, a distanza di secoli, dilemmi ancora attuali.
Dalle visite al mulino col nonno Antonio, figura fondamentale nella sua crescita e formazione, Leonardo si affianca a un altro personaggio che lo “inizia” ai piaceri e ai segreti dell’arte culinaria: il “volgare, sciatto e goloso“ Accatabriga. Pasticciere di Vinci in pensione è il secondo marito di sua madre e sarà proprio lui a insegnargli i trucchi del mestiere. Leonardo si trasferisce a Firenze nella bottega del Verrocchio, che ha subito fiutato il talento artistico del giovane allievo, e continua a rimpinzarsi dei dolciumi che Accatabriga gli spedisce. Per arrotondare il misero stipendio di apprendista pittore inizia a lavorare come cameriere alla Locanda delle Tre Lumache, sul Ponte Vecchio. La morte per avvelenamento dei tre cuochi lo promuove in cucina. Se da una parte Leonardo dipinge opere commissionate dal Verrocchio, dall’altra stravolge i piatti classici del Rinascimento e non tutti apprezzano. Così si legge nel libro Note di cucina di Leonardo da Vinci: «Da mesi ormai pensa con nausea e disgusto alla polenta che, servita insieme a pezzi di carne di difficile identificazione, è il piatto forte del posto… i clienti della Taverna fanno un gran baccano quando Leonardo inventa tanto che è costretto a fuggire per salvarsi la pelle e ad abbandonare il lavoro».
Qualche tempo dopo, insieme all’amico Botticelli, Leonardo apre a Firenze un ristorante chiamato “Le tre rane di Sandro e Leonardo”, le cui insegne, ovviamente, vengono dipinte di mano loro. Ma il locale non ha successo: la clientela fiorentina non vede di buon occhio quelle estrose innovazioni culinarie e i menù, scritti da destra a sinistra, risultano incomprensibili. Se la carriera di Leonardo come taverniere e cuoco si conclude ingloriosamente col fallimento del ristorante, presto se ne apre un’altra alla corte di Ludovico il Moro a Milano. Qui il genio darà libero sfogo alla sua fantasia, creando piatti rivoluzionari degni di uno chef d’alta classe e resterà per qualche anno a occupare la cucina, finché la sua ineguagliabile cena non sarà veramente l’ultima.