Per capire a pieno chi fu veramente Giorgio Gaber non si può non fare riferimento alle parole spese sul suo conto da Massimo Bernardini: «È uno che in un’epoca come la nostra, mentre gli altri sembrano fare i conti con le cose più spicciole, guarda un po’ più in là e un po’ più oltre. Le parole di tutti non gli bastano, per lui vogliono dire un’altra cosa, e deve per questo ripulirle da ovvietà ed equivoci».
Cantautore, chitarrista, commediografo, regista e attore teatrale, riuscì ad influenzare con il suo pensiero il panorama culturale del secondo dopoguerra, attraversando quarant’anni cruciali della storia italiana.
Definito più volte ruvido, istrionico, genio e addirittura anarchico, fu piuttosto un intellettuale nel vero senso della parola, con il suo teatro-canzone ed i suoi pezzi continuamente sospesi tra satira, amarezza, ironia, vita pubblica e vita privata.
Gaber impara ad usare la chitarra durante la sua infanzia milanese, quando il padre gliela regala per esercitare il braccio sinistro, colpito da una lieve forma di poliomielite. Ama i jazzisti statunitensi e sogna di diventare come loro: da Barney Kessel a Billy Bauer.
Dopo una breve carriera da chitarrista, durante gli anni ’50, entra a far parte dei “Rock Boys”, il complesso di Adriano Celentano e Enzo Jannacci, approdando finalmente anche in televisione. Sono anni di brillante carriera, di incontri significativi, come quello avvenuto con Luigi Tenco a Genova, gli anni de “La ballata del Cerutti”, dell’attrazione per la canzone francese e della ricerca di un punto di equilibrio con le influenze americane (jazz e rock).
«La fine degli anni ’60 fu un periodo straordinario» confessò l’artista «ma mi stavano strette le limitazioni di censura; e allora mi dissi: d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò allora che l’attività teatrale riacquistasse un particolare senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo».
Gaber capisce che il teatro è la giusta via da percorrere, e fregandosene della popolarità e dei sicuri proventi economici, sperimenta e inventa la forma del teatro-canzone. Il vecchio Gaber non esiste più, non è più costretto a recitare un ruolo in televisione, vuole solo presentarsi al pubblico per quello che è…
Nasce, così, il personaggio del “Signor G”, una persona piena di dolori e contraddizioni, un uomo comune: «Il Signor G è colui che tenta una specie di spersonalizzazione per identificarsi in tanta gente». Un artista con la “A” maiuscola, che ha avuto il coraggio di osare, di ammettere la sconfitta se necessario (La mia generazione ha perso – 2001), di parlare chiaro.
Indimenticabile appare, infatti, la canzone Io se fossi Dio (1980), scritta subito dopo l’uccisione di Moro, definita dallo stesso «uno sfogo personale di uno che non ne può della politica, che si sta inserendo in tutti i settori della nostra esistenza».
Ci ha lasciati a sessantatré anni, conservando quel sorriso beffardo che, come scritto da molti giornali «non è mai sceso a compromessi e non ha mai accettato di farsi accalappiare».
Ambra Belloni