Emily Dickinson (Amherst 1830 – 1886), affida il proprio «fulminante canto di salvezza» alla scrittura, ad un Canzoniere di «amore e morte», come è stato più volte definito, credendo fermamente nel potere salvifico della poesia.
Proprio come Giacomo Leopardi, Emily si sente «un’esiliata in Patria»; è reclusa in un borgo, protetta da una famiglia di prestigio, ma è impaziente di rovesciare il mondo con la sua poesia folgorante.
Il suo campo di battaglia è, dunque, la scrittura e il nemico da abbattere è il dolore, quel dolore che deriva da una tradizione di stampo patriarcale e maschilista che relega la donna ad un ruolo marginale nella società. Ma la Dickinson non è, certo, una pacifica signora dell’Ottocento americano, come molti hanno voluto far credere… non tollera gerarchie e ruoli, non accetta l’ortodossia religiosa né tantomeno le regole di un conformismo dilagante, ed è per questo che trova la sua ancora di salvezza proprio nella luce della composizione poetica.
Una scrittura libera da regoli e schemi, una poesia postmoderna dominata da uno stile ossimorico e contrastivo, una «fucilata al cuore». Si tratta della poetica dell’infinito, quell’infinito che la poetessa vede chiaramente dalla finestra della sua camera di Main Street e che sente l’impellente bisogno di tradurre in parole, colta da un furore poetico inarrestabile:
«Si può non scrivere versi
ma capitano all’alba o al tramonto Risorgono dalla luce schiacciata di una porta. Si può non essere poeta
ma scrivere e scrivere nella pazzia di luce poesie in un anno febbrile sfiancante»
La sua vita, del resto, è sempre stata per sua stessa ammissione come «un fucile carico in un angolo», un fucile pronto ad esplodere in colpi di versi dal ritmo spasmodico, solo così, il dolore potrà trasformarsi gradualmente in luce.
Ambra Belloni