foto in copertina: Fabrizio Contri e Denis Fasolo ( Foto BEPI CAROLI)
di Carlo Goldoni
regia Valerio Binasco
con Natalino Balasso, Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati.
scene Guido Fiorato; costumi Sandra Cardini;
luci Pasquale Mari; musiche Arturo Annecchino
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Dall’ 11 al 23 febbraio al Teatro Argentina il regista e attore piemontese cinque volte premio Ubu, Valerio Binasco, si confronta con un grande titolo del repertorio rileggendo Arlecchino servitore di due padroni.
Valerio Binasco ha stupito critica e pubblico frantumando la tradizione con un Goldoni che guarda più alla commedia all’italiana che alla commedia dell’arte, dando voce a un’umanità vecchio stampo, paesana e arcaica, che ha abitato il nostro mondo in bianco e nero.
Famelico, bugiardo, disperato e arraffone, l’Arlecchino “contemporaneo” di Binasco è un poveraccio che sugli equivoci costruisce una specie di misero riscatto sociale: «A chi mi chiede: come mai ancora Arlecchino? rispondo che i classici sono carichi di una forza inesauribile e l’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola».
Personaggio dalle molteplici contraddizioni: meschino e anarchico, irriguardoso e servile, Arlecchino riesce a portare scompiglio nell’ottusa società borghese, con una carica che suo malgrado si può perfino dire ‘sovversiva’. «Non è mia intenzione – dice il regista – fare uno spettacolo ispirato alla Commedia dell’Arte, così come non userò le maschere della tradizione. Per quanto sarà possibile, tenterò di dare a questo testo un sapore moderno, cercando di restituire l’umanità e la credibilità dei personaggi anche quando la tentazione del formalismo teatrale fine a se stesso ci sembrerà irresistibile. Non ho voluto avvicinarmi a un ‘mostro sacro’, un’icona come Arlecchino per testimoniare il mio rapporto con la teatralità – e sottolinea – Certo, la forza impressionante delle prime commedie di Goldoni arriva fino a noi, anche a dispetto di molte ingenuità drammaturgiche, e di altrettante concessioni al gusto e alle convenzioni dell’epoca. Resistere a questa pura forza teatrale che si propone in modo giocoso, infantile, ballerino, non sarà impresa facile, e qualcuno potrà legittimamente domandarmi: perché resistere, dunque? Ho due risposte. La prima è che le invenzioni di Strehler per rivisitare (per quanto possibile) la Commedia dell’Arte sono insuperabili, e si sono espresse con una nettezza che rende inutile e frustrante qualsiasi tentativo di incamminarsi sulla medesima strada. La seconda, che ha una risonanza più intima per me, è che in questa commedia, (al pari di altre commedie del ‘primo’ Goldoni) avverto il richiamo di qualcosa che ha a che fare con un ‘certo tipo di umanità’, la cui anima travalica i limiti del teatro per il teatro, e chiede di essere raccontata con maggiore realismo, con maggiore commozione. È il richiamo di una tipologia umana di vecchio stampo, l’Italia povera ma bella di sapore paesano e umilmente arcaico che è rimasta attiva a lungo nel nostro paese, sia sulla scena che nella vita reale, ha abitato il nostro mondo in bianco e nero, si è seduta ai tavoli di vecchie osterie, ha indossato gli ultimi cappelli, ha assistito al trionfo della modernità con comico sussiego, ci ha fatto ridere e piangere a teatro e al cinema con le ‘nuove maschere’ dei grandi comici del Novecento, e poi è svanita per sempre, nel nulla del nuovo secolo televisivo.
La voce di questa umanità è quella della Commedia».
Bruno Cimino