Un artista irripetibile, che riecheggia forte nei cuori: Lucio Dalla

Sono passati dieci anni dalla morte di Lucio Dalla: il primo marzo del 2012, tre giorni prima del suo 69esimo compleanno, Lucio ha oltrepassato la riva della vita.

Risulta curioso che la sua ultima esibizione non sia stata un concerto come tutti gli altri, ma la partecipazione a Montreux, uno dei festival jazz più importanti del mondo, occasione imperdibile per un cultore e attore del jazz come lui.

Poliedrico e inconformabile, principe e al tempo stesso il vagabondo, com’egli diceva di se stesso, Dalla era rocca di un talento sconfinato, di una smisurata ricchezza artistica

Pupi Avati, suo amico per tutta la vita, racconta una storia che lo riguarda, di quando Dalla, alla fine degli anni ’50, entrò nel gruppo in cui Avati faceva il clarinettista. Dalla era strambo e virtuoso, tanto che Avati, in una visita a una delle torri di Bologna, spinto dall’invidia, ebbe l’impulso di spingerlo giù.

Da autodidatta, non fece studi teorici, nonostante abbia suonato con grandi del jazz come Chet Baker e più in là con Petrucciani e Stefano Di Battista.

La lente con cui leggere Dalla è Bologna, la sua piazza grande, le osterie… Bologna era una delle culle italiane del jazz, poi, anche grazie a lui, è diventata il riferimento dei giovani cantautori, mentre a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 è stata una fucina di creatività del nostro Paese. Vi era un amore infinito e ricambiato tra lui e questa città.

Il vero trionfo è arrivato nel 1977 con “Com’è profondo il mare” quando aveva 34 anni.  “Come è profondo il mare” inaugura la stagione del Lucio Dalla che diventa storia della cultura e del costume del nostro Paese, in grado di parlare la lingua di tutti, interpretare il sentimento del Paese, anticipare il futuro.

Dalla si è preso il tempo di fare il suo cammino di artista, senza pressioni mediatiche, decidendo di fare tutto da solo, scrivendo anche i testi delle sue canzoni, in principio affidati soprattutto a Sergio Bardotti e Gianfranco Baldazzi e poi al poeta Roberto Roversi con cui ha realizzato la celebre trilogia “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride Solforosa” e “Il futuro dell’automobile e altre storie”.

Il suo universo è albero di capolavori, alcuni celebri, altri persi tra le volute di un cammino virtuoso e caleidoscopico: si nutriva di interessi i più vari, la passione per l’arte e per il cinema, si divertiva con la televisione, metteva in piedi insieme a Francesco De Gregori, uno dei primi tour kolossal made in Italy negli stadi, si avvicinava ai suoi antichi amori operistici con “La Tosca”, aiutava Gianni Morandi a rilanciare la sua carriera con lo storico tour “Dalla Morandi”, conosceva un successo mondiale con “Caruso”.

Con la sua penna, era in grado di scherzare, prendere in giro ma anche prendere molto seriamente il passato e il presente, come esattamente nell’omonimo pezzo.

La sua anima sfaccettata gli permetteva di essere amico di senza tetto e grandi della terra, religiosissimo e iconoclasta, un inventore di balle gigantesche e scherzi. Per questo sul citofono della sua celebre casa di via D’Azeglio a Bologna, oggi sede della Fondazione, c’è scritto Comm. Domenico Sputo.

A dieci anni dalla sua scomparsa, resta un vuoto d’arte incolmabile, l’assenza di un personaggio irripetibile, eppure è costantemente presente ad abbellire le nostre emozioni, i nostri sentimenti, i momenti d’arte pura.

Dalla

balla

nei cuori puri quanto una calla

e resta a galla

come una palla,

lasciando dentro

una enorme falla.

di Marino Ceci

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