La campana di vetro è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath. Pubblicato in Inghilterra nel 1963 dall’editore Faber and Faber, fu accolto con freddezza e sufficienza dal pubblico, ma divenne ben presto il libro simbolo del movimento femminista per la liberazione delle donne da una società ottusa e alienante.
Come ha osservato Claudio Gorlier però, La campana di vetro è molto di più di un semplice “protocollo femminista”: il libro è, infatti, interamente attraversato dal complesso e terribile binomio vita-morte che si impone sulla vita di Esther, protagonista del romanzo e alter ego dell’autrice.
Esther diciannovenne di provincia è, dunque, intrappolata come molte altre donne in un mondo alienato, come «un cavallo da corsa in un mondo senza piste», ed è proprio nella simbolica e soffocante “campana di vetro” imposta da una società opprimente che ella è costretta a vivere la sua esistenza, sottoposta a regole e istituzioni ben precise (dalla famiglia all’università al matrimonio), vessata da codici comportamentali che la sua volontà di donna non vorrebbe affatto rispettare.
Il peso dell’esistenza quotidiana all’interno della “campana di vetro” risulta sempre più insostenibile e per la giovane ragazza l’unica alternativa possibile non può essere che la follia, il lasciarsi cullare dal «fascino soave della morte», mentre le onde azzurrine dell’elettroshock invadono la mente.
Nella stanza, reale e simbolica, delle ultime pagine del romanzo Esther entra sola, proprio come Sylvia Plath, quando a Boston fu sottoposta a cure psichiatriche, ma, continua Gorlier, Esther non è propriamente sola «perché affronta una lotta in cui milioni di donne e di uomini sono tuttora impegnati», la battaglia più difficile da vincere: quella con la nostra mente.
Ambra Belloni