Quel tesoro che si chiama “io”

C’è uno scrittore che si chiama Igor Sibaldi, il quale sostiene che su Facebook la gente scriva di fretta, attraverso espressioni brevi, mirati a colpire e non a comunicare. Egli paragona la piattaforma virtuale ad un’auto che apparentemente è un mezzo di comunicazione, perché ci consente di viaggiare ovunque, ma di fatto in quello spostamento si è soli dentro la vettura. Su face book succede la stessa cosa, si resta fermi in un contesto che è profondamente alienante.
Dunque scrivere di fretta significa essere convinti di non essere letti e quindi tentare di colpire con frasi concise.
Tutto questo è molto triste, se la gente corre senza comunicare invece di fermarsi per comunicare, significa che ha perso di vista lo scopo della propria esistenza, rimanendo invece prigioniero della causa/effetto che caratterizza il mondo sociale-scientifico-psichico.
Quale sarebbe allora l’alternativa alla causa/ effetto? La risposta è: “lo scopo”, ovvero il nostro stesso io.
Se osserviamo un bambino parlare, notiamo che di fronte ad ogni frase mette il soggetto (io sono, io gioco, io voglio…). Lo chiamano egocentrismo. Non a caso i vangeli, soprattutto gli gnostici, incitano a cercare dentro di sé per trovare Dio e noi stessi, per scoprire la verità. Aggiungono che per trovare la verità bisogna diventare come bambini.
La nostra esistenza è un’inconsapevole involuzione, dal momento che crescere vuol dire riempire la nostra mente di nozioni e concetti, ma svuotarsi dell’originaria conoscenza dell’io, dimenticando noi stessi.
Il bambino vive attraverso se stesso ed è incontaminato dalla forza del materialismo, che lo rapirà nel tempo. Il bambino vive nel suo presente, avulso dai doveri, dall’ansia del “devo”. È praticamente libero, come liberi non sono più i grandi.
Il virtualismo alimenta tutto questo e completa la forza oscura che ci fa scrivere di fretta, nella paura di non essere ascoltati.
Madre Teresa di Calcutta diceva che l’amore è conoscenza. La conoscenza cui si riferiva non è quella del tuttologo, ma quella dei bambini, che sanno ridere e piangere dappertutto, che fanno amicizia in maniera naturale senza cogliere le diversità e senza convenevoli.
È la conoscenza di chi non abbandona mai se stesso, l’unico luogo in cui abita l’assenza di malattia e di morte. Ci si ammala fuori da se stessi e si è tristi lontani dall’ origine perduta  inesorabilmente. Ritrovare se stessi è possibile ritornando liberi. Ed essere liberi è qualcosa di grande, non un premio frutto di sacrificio, ma una scoperta gioiosa derivante da un istinto perfetto.

 

Eleonora Giovannini

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