L’impronta che Baudelaire ha lasciato nel secolo XIX, scriveva Walter Benjamin, è chiara e intatta «come una pietra che sia stata un bel giorno capovolta e sollevata dal posto in cui era rimasta a giacere per decenni».
Una poetica inebriante che sfida regole e schemi, una poesia proibita, “maledetta”, fortemente e dolorosamente reale, «uno shock che improvvisamente risveglia dalla pensosità» attraverso la potenza del simbolo e dell’allegoria: tutto questo è Charles Baudelaire.
Il ricorso all’allegoria come procedimento poetico è presente, soprattutto, laddove il poeta approfondisce il tema tradizionale del dolore cosmico (ennui); con lui l’accezione classica di melanconia si trasforma in un concetto chiave: lo spleen, “tetraggine” secondo la traduzione di Stefan George.
Ma lo spleen è molto più di questo. È l’ansia che si concretizza nel pensiero umano, il tedio paralizzante legato a un disagio che pervade l’intero essere dell’uomo moderno, la paura astratta e smisurata che cerca appiglio negli oggetti e nei fenomeni del mondo esterno, ma ne ricava soltanto noia esistenziale.
Con Baudelaire giungiamo al disfacimento totale del rapporto tra Io e realtà, e lo spleen non è altro che la sconfitta perenne che pervade l’artista decadente.
Fortissima e meravigliosa la metafora presente nel componimento poetico del 1869 Lo spleen di Parigi (I fiori del male), dove questa difficile condizione assume l’immagine di una tristezza più nera della notte, di una lotta costante tra Speranza e Angoscia, vinta da quest’ultima che, atroce e dispotica, pianta la sua tetra bandiera nel cranio del poeta.
Una condizione che non lascia scampo… e che può essere imprigionata soltanto dai versi di Baudelaire: «Come quando le strisce della pioggia sembrano le inferriate d’una vasta prigione e muto, ripugnante, un popolo di ragni dentro i nostri cervelli dispone le sue reti. Furiose a un tratto esplodono campane e un urlo tremendo lanciano verso il cielo che fa pensare al gemere ostinato d’anime senza pace né dimora».
Ambra Belloni