L’identità come memoria

La violenza è frutto di una “memoria interna” legata all’esperienza. Questa verità scavalca il vecchio pregiudizio o giudizio di comodo secondo cui chi compie un’azione lesiva lo fa perché  “così vuole la genetica”.

Non esistono geni della violenza, ma predisposizioni determinate da esperienze passate. La scienza sostiene questo, non un’intuizione del pensatore. Quando un bambino subisce uno stato di abbandono il suo apprendimento gli codifica un mondo dal quale non ci si può aspettare protezione e verso cui è necessario usare diffidenza, durezza, perché gli altri non ci amano, ma ci lasciano. Secondo questo tipo di esperienza quel bambino non imparerà a dare, ma a sottrarre, non sarà propenso all’empatia, ma all’egoismo. Considerare la violenza come una condizione predestinata e congenita esclude ogni possibilità  di ripristino nella persona deviante, di fatto valorizzando la dolosità  piuttosto che la comprensione, la pena da scontare piuttosto che un’azione mirata al recupero.

Una società che determina, che stigmatizza, non è una società libera, ma condizionata da una subcultura estesa e profonda. Il sistema, che è sistema non soltanto sociale, ma soprattutto economico e monetario, esercita su ognuno di noi un plagio vantaggioso al profitto che, sotto le false vesti di un welfare state, nasconde la sua vera identità di manipolatore che controlla la vita delle persone e le inganna sin dalla nascita. Si nasce non sotto la tutela dello Stato, ma sotto lo Stato. La libertà rimane uno strumento psicologico volto a tenerci a bada e così impigrirci all’interno di un ingranaggio che segue disegni di convenienza legati al denaro.

Meglio un prigioniero che si crede libero che un uomo davvero consapevole che si oppone all’assopimento predeterminato.

La violenza, come d’altronde la guerra, è utile al profitto, poiché favorisce “il movimento” che fa circolare più denaro. Senza la violenza ci sarebbe meno lavoro, come senza malattie ci sarebbero meno introiti. La povertà, la malattia, il disordine, sono indispensabili ad una società che vuole tutelare il profitto. Perfino l’inquinamento, per quanto autolesivo (l’uomo ha bisogno della terra per vivere) garantisce l’arricchimento. Di fatto le persone selezionate per lavorare in borsa sono tutte “difettose cerebralmente”, quindi incapaci di empatia. Sono macchine addestrate, prive di scrupoli, che danneggiano e provocano morte per la tutela del profitto.

In nome di questo “demone” il fenomeno della violenza è in forte crescita. Solo in società dove vige l’uguaglianza la violenza è pressoché  assente, solo in persone equilibrate e appagate risulta inesistente ogni forma di aggressività. Dunque dove c’è assenza di amore si originano tutte le forme di devianza e di violenza. E’ statisticamente provato che i tossicodipendenti hanno un passato di abusi psicologici e sessuali e si rifugiano in un mondo di sogno dove non rischiano quella realtà dolorosa. La loro “memoria interna” ha generato in essi la convinzione che la realtà sia devastante, così da doversi difendere dentro una dimensione ideale di assenteismo dal mondo.

Nessun drogato è geneticamente tale, nessun violento è geneticamente tale. La violenza è ciò che insegna l’inadeguatezza, il disorientamento del disamore.

Non sono le punizioni e le pene che migliorano una società malata, ma un intervento più profondo che inizia dall’educazione, dall’individuazione di una cultura da rivedere, che rivalorizzi  le risorse in nome della creatività e della vera formazione. Finché continuiamo a subire un sistema furbo, che cancella la nostra memoria originaria legata alla nostra forza divina, assisteremo a crisi economiche, alla morte della bellezza, alla fine dell’umanità.

Eleonora Giovannini

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