Le bellezze della Sardegna: La lingua, i costumi ed il ballo

di 

Marino Ceci

La lingua

Il sardo è una lingua di origine neolatina come italiano, francese, spagnolo, rumeno, portoghese, nata cioè dalla fusione del latino dei conquistatori romani con le parlate locali. In sardo, per esempio, l’articolo su/sa, proviene dal pronome latino ipsum/ipsa (“egli stesso”).

In ragione della posizione geografica della Sardegna, più isolata e quindi meno sottoposta a influenze straniere, il sardo è la lingua neolatina che è rimasta più vicina alla base originaria. Si rinvengono ancora elementi di greco, soprattutto nei nomi geografici, come Olbia, e di punico, ad esempio Macomer viene da maqom, che significa città.

La lingua sarda nasce, al pari delle altre lingue neolatine, dall’evoluzione del latino importato nell’isola dai Romani a partire dal III secolo a.C. Con la crisi dell’impero, la Sardegna passò alla dominazione dei Vandali, per esser riconquistata dai militi greci dell’impero bizantino, ma l’idioma latino era ormai diffuso in tutta l’isola.

La lingua sarda risente anche di influenze iberiche. Tra le lingue straniere che hanno influenzato il sardo nelle epoche successive, lo spagnolo ha avuto un ruolo preponderante. Dal 1327 al 1720 la Sardegna è stata infatti dominata alla Spagna e lo spagnolo era lingua ufficiale nei tribunali e nelle scuole. Vocaboli come ventana (“finestra”) o calentura (“febbre”), tutt’ora in uso, sono stati adottati dal sardo proprio in quel periodo.

Con il tempo, la lingua autoctona è stata esposta all’influenza di diverse lingue esterne che ne modificano e arricchiscono in modo particolare il lessico. In questo, le classi dirigenti isolane adottano  di volta in volta la lingua dominante di turno, creando un sostanziale plurilinguismo, mentre le popolazioni restano attaccate alle varietà della loro lingua facendola sopravvivere fino ai nostri giorni. Verso l’inizio del secondo millennio d.C. si assiste alla nascita di differenziazioni interne in particolare tra le varianti meridionali e quelle settentrionali della lingua. Per gli studiosi della latinità e delle lingue romanze, il sardo si è conquistato un suo posto particolare quale caso tipologico di lingua che, nonostante la sua evoluzione, è rimasta molto vicina alle forme del latino originario.

Negli anni Settanta del secolo scorso, di fronte all’evidenza del rischio di abbandono del sardo e della sua estinzione, nascono movimenti e azioni per la sua preservazione e tutela.

Il Costume

Per quanto concerne l’abbigliamento tradizionale, esso rifletteva la divisione in classi sociali della comunità locale, nobiles o cavalleris, vassallos e remitanos, damas e vassallas e la differenziazione è sopravvissuta sino agli anni Cinquanta e Sessanta.

Il costume tradizionale, maschile e femminile, era in uso sino a metà anni Sessanta, quando alcuni uomini anziani e, più raramente donne, lo indossavano quotidianamente. Attualmente è scomparso dall’uso quotidiano.

Per quanto non più nell’uso quotidiano, è frequente che le famiglie sarde ne posseggano uno ereditato dai propri nonni, custodito e tramandato gelosamente.

Oggigiorno vengono indossati in occasione delle feste più importanti come la Pasqua, in occasione di matrimoni e nel periodo carnevalesco. 

Il costume maschile è costituito da un Copricapo, sa berritta, di panno nero, lunga circa 60-70 cm, distesa o piegata sul capo, comune ed uguale in quasi tutta l’Isola; la camicia, sa hammisa, di tela bianca, collo a sa piza (alla coreana); corpetto, su curittu, di panno rosso; giacca, sas peddes, di pelli nere di agnello o pecora; gonnellino: sos carzones de goresi, in orbace nero con la cinta; i calzoni: sos cartzones biancos.

La versione da “vedovo” prevede che anche il corpetto sia rigorosamente nero. Il costume maschile d’inverno veniva completato da su sahu nigheddu, un mantello o cappotto nero di orbace con cappuccio (gappotto ‘e goresi).

Il Ballo

Le origini del ballo sardo non sono chiare in quanto mancano di fonti scritte cui poter fare riferimento, per cui sono state condotte analisi e avanzate ipotesi. Alla pari di altre tradizioni con una somiglianza, si può ascrivere il ballo alle cerimonie sacre arcaiche destinate all’auspicio per una caccia abbondante e/o ricchi raccolti. Non resta escluso a priori una finalità di aggregazione sociale o ludica.

La testimonianza più antica è in un vaso risalente alla “cultura di Ozieri“, circa 2500-3000 anni a.C., dove è rappresentato un tipico ballo sardo. Teoria che sembra confermata non solo dall’uso di strumenti musicali come le launeddas (il più antico strumento musicale sardo attualmente non presente a Mamoiada) per accompagnare le danze, ma anche dal legame culturale, simbolico col fuoco e ciò che avviene attorno ad esso. Nella festa principale di inizio anno infatti si preparano i fuochi, intorno ai quali si danza.

Centrale la figura dei ballerini: il cerchio, su ballu tundu, in cui tutte le coppie si tengono per mano, a manu tenta, una proposizione che raccoglie un significato ampio, importante che va oltre il tenere “le mani strette” reciprocamente. Dal punto di vista coreografico e musicale vi è una sottintesa complicità tra chi balla e chi suona o canta, ad ulteriore conferma della importanza dell’unione comunitaria durante i momenti più significativi di aggregazione sociale. 

In origine l’accompagnamento per il ballo era costituio dal canto, cioè il cosiddetto canto a hussertu, a tenore; indubbiamente all’occorrenza anche con l’ausilio di semplici strumenti a fiato, realizzati con canne e legnetti (pippiajòlos) e con strumenti a corda con “cassa armonica” ricavata da stomaci di animali essiccati e gonfiati.

Curioso quanto affermato da Gae Aulenti, architetto di fama, appassionata ricercatrice e studiosa di tradizioni popolari arcaiche in un suo noto saggio antropologico, che sostiene che all’epoca delle grandi piramidi egizie in Sardegna si danzava già su ballu tundu. 

La prima testimonianza del ballo sardo si deduce dal rinvenimento del frammento di una scodella carenata in cui è rappresentata una scena di danza in cui le ballerine sono quattro donne.

La documentazione della danza femminile di 2500 anni fa è oggi custodita a Sassari presso il Museo Sanna, come anche l’ architrave del gioiello romanico del Guilcer, la chiesa di San Pietro di Zuri.

Il ballo scandiva i ritmi delle comunità arcaiche: matrimoni, battesimi, feste campestri, solennità e festa del Patrono, vendemmie e carnevale. Durante il ‘700 , età in cui si faceva strada il mito romantico del viaggio in Sardegna da parte dei più grandi intellettuali europei, un aspetto che colpì numerosi viaggiatori fu l’importanza sociale attribuita al ballo. Era eseguito con compostezza del corpo e solennità nel portamento, tanto da evidenziare come degno di nota il fenomeno de sa tzeracchía, cioè l’atto di garantire la partecipazione certa di un suonatore pagando anche con anticipo di un anno. Era la donna ad aprire le danze. Nel panorama Mediterraneo il ballu tundu  ha affinità con altre danze come in Grecia e Catalogna, anche come nome la sardàna, tipica danza della Catalunya.

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