Il Cigno Nero: un film capolavoro sulle personalità disgregate

Perché il Cigno Nero, di Darren Aronofsky è un ottimo film, è presto detto.

Una talentuosa ballerina – interpretata da Natalie Portman – un regista (Vincent Cassel) e la personalità di lei disgregata e danneggiata, incapace di reintegrarsi in un Io accettabile, vittima delle pressioni di un Super Io nutrito dal controllo materno, e di un Es che per rivendicare il diritto di emergere non può far altro che distruggere. Tutto questo rende il film un capolavoro di analisi introspettiva in un crescendo di tensione.

Non è un caso che il film si sviluppi attorno alla messa in scena di un balletto – Il lago dei Cigni -che incarna emblematicamente l’idea di perfezione. Infatti il fulcro del film nasce dalla mancata integrazione nella personalità della protagonista, di ogni lato di sé, dovuta ad una protratta repressione della propria essenza più profonda e contraddittoria che, nel film di Darren Aronofsky, viene rappresentata (e semplificata) dalla rappresentazione de Il cigno nero.

Nella pellicola che è valsa l’Oscar per la miglior attrice protagonista ad un’eccezionale Natalie Portman, il regista si serve del contrasto tra le indoli opposte del cigno bianco e del cigno nero, protagonisti del balletto di Ciajkovskij, per mettere in luce la personalità fragile e scissa di Nina, una ballerina dal raro talento ma incapace di lasciarsi andare completamente. Questa incompleta formazione della personalità trova infelicemente sfogo nell’esprimere emozioni attraverso la pratica di atti autolesionistici, in particolare graffi profondi procurati alla propria schiena.

Del passato di Nina si sa poco ma si comprende che l’assenza del padre, i sogni infranti della mamma, riversati sulla figlia, attraverso una presenza invadente e iper-controllante della madre, che tratta la figlia come fosse ancora una bambina, spingendola verso un perfezionismo che spinge la ragazza verso un controllo talmente rigido di sé e delle proprie movenze tale da allontanarla progressivamente dall’espressione di quella sensualità istintiva che il doppio che deve portare in scena richiederebbe.

Tale istinto viene ricercato nella sessualità, intesa come parte essenziale dell’ individuo che – per definizione – richiede l’abbandono di ogni controllo e che Nina – vittima di un controllo genitoriale del quale non sembra essere completamente consapevole – non riesce ad esprimere pur desiderando più di ogni altra cosa di essere un Cigno Nero degno della sua controparte più limpida.

Nina inizia così un complesso travaglio psicologico per la protagonista, sotto l’insistenza del direttore artistico Thomas Leroy, interpretato da Vincent Cassel, perché Nina riesca ad abbandonarsi alle proprie emozioni più recondite, pena la sua sostituzione con la meno brava ma passionale Lily (Mila Kunis).

La rivale, ballerina sexy e disinibita con la vita e con l’altro sesso, costringe Nina ad una resa dei conti con se stessa ovvero la maschera dolce e remissiva con la quale Nina si fa scudo per affrontare il mondo, e la sua parte più oscura e vera, necessariamente ribelle, che attraverso la relazione con Lily preme sempre più per emergere. Un rapporto di amore ed odio. Emblematica è la scena metaforica in cui Nina chiude fuori dalla stanza sua madre, si getta sul letto con Lily, sua controparte “nera”/passionale e si lascia totalmente andare.

Non è chiaro se la caduta finale nel magistrale balletto, con una Nina gravemente ferita dal duello con se stessa, sia la sua fine o la morte della precedente sé e rinascita. Probabilmente dovremmo chiedere conferma al medico chiamato in scena a soccorrerla. 

Di Marino Ceci

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