Incontro il maestro Luigi De Mitri sulla piazza di un piccolo centro della Grecìa salentina, Zollino, nella controra di un pomeriggio di agosto.
Una sfida all’afa per parlare di arte nella patria dell’umanista Sergio Stisio in uno degli ultimi luoghi in Terra d’Otranto, dove ancora risuona l’idioma di Omero.
Parlare d’arte con De Mitri è un sottile piacere dello spirito, un’esperienza irrinunciabile: la luce nella Storia dell’arte, il segno, il disegno, la sintesi, il non finito, il colore, l’affresco.
De Mitri è uno dei pochissimi affreschisti italiani di rango, depositario di questa arte sublime nella tecnica e nello stile dei grandi del Rinascimento italiano.
Il Maestro mi accenna ai lavori in corso nella seconda Cattedrale di Otranto e mi racconta la genesi delle sue opere sulla Bibbia e sulla Divina Commedia.
Si tratta di opere che si inseriscono nello scrigno dell’arte italiana contemporanea con il sigillo di un talento magistrale.
Ma non è questo l’argomento del nostro incontro. DE MITRI mi parla di una mostra che intende riproporre in alcune grandi città (e per prima Roma) di una raccolta di dipinti e disegni realizzati su un tema unico, originale: i barboni della grande metropoli, gli “homeless”, i senza casa, incontrati in una sera d’inverno alla Stazione Termini di Roma nella lunga sosta di uno sciopero ferroviario. Siamo nel 1998 ma l’esperienza del maestro è ancora viva come la sua emozione.
Rispetto al complesso delle opere, questi dipinti potrebbero apparire un lavoro meno significativo, un’opera “minore” del suo itinerario artistico. Non è così e comunque si comprende subito che gli è particolarmente a cuore perché sembra connettersi alle più profonde esigenze del suo spirito, al sostrato della sua anima più che alla fonte della sua ispirazione artistica.
Un lavoro nato d’istinto sul filo di una emozione repentina, di una rivelazione inattesa, quasi epifanica, di un mondo parallelo.
Una serie di appunti, di disegni abbozzati su un notes e poi trasformati in un racconto pittorico con i tratti di una parabola, una testimonianza, di un messaggio umano prima che artistico.
Rivedremo questo racconto presto in una serie di eventi che non potranno non avere successo perché la grande arte ripaga sempre quando è al servizio dell’uomo, quando servendosi di una “Matita”, fissa per sempre il diagramma di una commozione che ci accomuna inesorabilmente.
L’artista non crea sempre l’opera d’arte. A volte essa già esiste e l’artista ha il privilegio di farla nascere e anche la responsabilità di farla nascere bene.
È quello che fa DE MITRI con i suoi dipinti sui Barboni di Roma colti nel loro torpore o nei loro sussulti nella penombra del loro inattingibile universo.
Personaggi inaspettati, misteriosi, in controsenso nella frenesia di una stazione ferroviaria e controcorrente nel fiume della vita.
Il viaggio del Maestro DE MITRI tra i suoi barboni, è breve ed intenso, in accelerazione, quasi in tumulto ma in punta di piedi, in silenzio.
Un viaggio intorno a figure dolenti legate da una inesorabile ventura cui il Maestro dà voce, dà corpo, da anima scandagliando le ombre fino ad attingere “il doppio” l’altro dà se che convive nel profondo di ciascuna vita e nel doppiofondo del destino.
Il disegno è forte ma il pennello è leggero, furtivo sulle membra, sui panni sdrucidi, di questi non protagonisti , non agonisti ai margini incerti nel buio.
DE MITRI osserva il loro bagaglio di dolore, il passo stanco, lento, sorvegliato a volte da una donna o un bambino. Spesso è un cane il compagno di viaggio, un cane che definire fedele è riduttivo come, forse, definirlo “umano”. L’artista, adesso, è solo un uomo, un poeta che segna vibrazioni, registra tracce per la giusta luce, il giusto colore che non smascheri, che non invada l’oggetto della sua attenzione.
Pochi come DE MITRI con la stessa forza plastica, scultorea del disegno, pochissimi con la delicatezza della luce pennellata sui dorsi, sui volti come una carezza, senza carpirne lo sguardo, senza ferire il pudore, senza rubare il pianto.
L’artista sa fermare un mondo, un aurea, un habitat, dosando il segno e la trama coloristica per non svelare i volti e i nomi, e segni riconoscibili nell’abbandono.
La pietas è propria del grande artista e ne guida la mano nella magia della creazione. È questo sentimento profondo che impregna l’arte di De Mitri, che sa subordinare le, a volte imperiose esigenze della tecnica, agli imperativi morali.
Ma l’arte rilancia sempre, in De Mitri, fondendo nel suo splendore emozione etica e ispirazione artistica.
De Mitri conosce bene questi valori presenti nel suo genoma ma non se ne fa vanto. Spetta a noi comprendere il significato del suo viaggio “border line” nella sofferenza, nel disagio; spetta a noi decifrare il linguaggio dei suoi colori crepuscolari, sommessi, a volte volutamente indistinti. I colori della bruma o le luci penombrali che strisciano sui lisi cappotti, sui gabbani da clown di questi immobili viaggiatori ai quali manca il pane, manca l’acqua, manca il sorriso, ma non manca l’anima.
Quella che ha cercato il Maestro da quella sera di febbraio.
L’anima e i perché; l’anima e lo sguardo dove si deposita il mistero. Questo cerca tuttora con la sua vibratile antenna lirica proponendoci ancora i suoi dipinti, nella loro splendida alchemica luce, e coinvolgendoci tutti in quella avventura.
In quella storia di una sera indicata nel calendario di un anno precisato, alle h. 22,30 per dire che siamo in una realtà, non in una finzione culturale o in un pretesto artistico. Una storia di anime, una odissea di uomini, non di banali ombre cinesi; una storia di vite non di fredde maschere in uno scenario di nature morte.
E De Mitri formula ancora domande a se stesso e a noi, lasciando forse intravedere, dalle sue tele, il non senso della risposta.
Barboni siamo anche noi, come loro. A Termini o sotto un ponte o un crocicchio, monadi vaganti senza rumore e senza lanterne dentro uno struggente ineluttabile addio.
Camillo Tondi