«Tra le sonore didascalie linguistiche del Bembo e le potenti fosche protervie dell’Aretino», scrive Maria Bellonci, si alza dal fitto brusio dei petrarchisti italiani una voce di donna, quella della poetessa Gaspara Stampa, attraverso un canzoniere pregno di versi dall’accento caldo e turbato.
Una figura poco conosciuta quella di Gaspara, poetessa e suonatrice di liuto, che venne accolta nella raffinata e istruita società veneziana cinquecentesca, ma che per la sua vita, elegante e spregiudicata al tempo stesso, e per la sua opera considerata “eccessivamente libera”, visse sempre sotto il segno della diffidenza collettiva.
Morì giovanissima, a circa trent’anni (nel 1554), ma ebbe almeno il tempo di scrivere 311 meravigliose rime d’amore, concepite secondo lo stile e il modello petrarchesco, per il suo grande amore: il bellissimo conte Collatino di Collalto.
Se l’incontro tra Petrarca e Laura avvenne a Pasqua, quello con il giovane patrizio «molto compiaciuto di sé» avvenne, invece, a Natale, in un clima dove la coincidenza tra il sacro e il profano non può essere casuale.
Collatino viene descritto come biondissimo, di struttura longilinea e con la barba corta e luminosa su un viso bianchissimo… è l’incarnazione angelica della bellezza.
Serve Venezia nella diplomazia e nella guerra e questo lo porta spesso lontano da Gaspara; un amore travagliato e difficile, dunque, che diventa inevitabile nutrimento per l’arte poetica della giovane, colta da continue evocazioni-invocazioni.
Ma la poesia di Gaspara è ardita e indomita come il suo cuore, che stanco si volge ben presto verso un altro amore: quello del letterato Bartolomeo Zen.
Dalle ceneri di una grande passione sopita, nasce un nuovo sentimento, e a nulla vale lo sdegno dei suoi concittadini, perché, infondo, questa è la sua natura, la natura di una donna libera che non ebbe paura di vivere a pieno il sentimento amoroso, scontrandosi, se necessario, con i falsi moralismi della sua epoca: «Amor m’ha fatto tal ch’io viva in foco, qual nova salamandra al mondo. Le mie delizie son tutte e ‘l mio gioco viver ardendo e non sentire il male, e non curar ch’ei che m’induce a tale abbia di me pietà molto né poco».
Ambra Belloni