ECONOMIA DI GUERRA: COSA SIGNIFICA

In occasione del Consiglio europeo a Versailles per dibattere circa il fronte di azione comune Ue sulla guerra in Ucraina, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha citato l’ economia di guerra.

Pensando al presente e al futuro dell’Unione,

Draghi ha dichiarato di non prevedere una estensione della guerra, “lo hanno detto anche i nostri alleati. Più pesanti sono le sanzioni e minore è il rischio di un allargamento del conflitto” ha detto.

Ha anche chiosato che “non siamo all’interno di un’economia di guerra” ma “dobbiamo prepararci. Ho visto degli allarmi esagerati. Prepararsi non vuol dire che ciò debba avvenire, altrimenti saremmo già in una fase di razionamento”.

Eppure la frase del premier ha generato una notevole risonanza pubblica, come ovvio, destando moltissimo stupore e inquietudine, in aggiunta a quella generata dopo l’allarme circolato in alcuni ambienti riguardo alla seppur lontana ipotesi di un attacco nucleare.

Da Versailles si manifesta la necessità  di riorientare le nostre fonti di approvvigionamento, attraverso nuove relazioni commerciali. Ha inoltre avvalorato l’eventualità, già prospettata per l’Italia, di rimettere in funzione le vecchie centrali a carbone di paripasso con l’incentivare l’investimento nella transizione energetica green verso una maggiore sostenibilità, e dunque verso l’utilizzo di risorse rinnovabili.

Ma in cosa consiste l’economia di guerra? Si tratta dell’insieme delle azioni messe in atto da uno Stato per mobilitare la sua economia durante il periodo bellico. Essa si focalizza sulla produzione di beni e servizi che supportano lo sforzo bellico, cercando anche di rafforzare l’economia nel suo insieme.

Nell’economia di guerra, lo Stato sottopone a una regolamentazione molto estesa l’economia di mercato, il sostentamento della popolazione, dell’apparato produttivo e dell’esercito viene garantito da un sistema burocratico-amministrativo di allocazione e distribuzione delle risorse. Viene sospesa o limitata in maniera importante l’economia di mercato, che viene sostituita, in parte o in tutto, da un’economia pianificata in cui a livello centrale si decide cosa si deve produrre e cosa no.

Durante i periodi di conflitto, i governi possono adottare misure per dare priorità alle spese per la difesa e la sicurezza nazionale e cessa di vigere il libero mercato.

Nel caso della UE, nel caso di una guerra diffusa, queste priorità potrebbero essere organizzate a livello centrale, a Bruxelles, e poi declinate nazionalmente.

Le finanze vengono utilizzate principalmente per la difesa. Allo stesso modo, se il Paese prende in prestito ingenti somme di denaro, quei fondi potrebbero essere destinati principalmente al mantenimento dell’esercito e al soddisfacimento delle esigenze di sicurezza nazionale.

Le imprese si riconvertono per produrre ciò che serve per combattere, un po’ come la riconversione delle aziende osservata a inizio pandemia, che si sono messe a produrre mascherine, scatta il razionamento delle materie prime, delle risorse alimentari, dell’energia, per far sì che ogni risorsa vada a sostegno della guerra.

In alcuni periodi bellici si è avuta una importante accelerazione del progresso tecnologico che rende più forte la società al termine del conflitto, purché non vi sia stata una distruzione estesa causata dalla guerra stessa.

Adattare l’economia alla guerra è, comunque, molto rischioso: una parte dei consumi viene trasferita dalla sfera civile a quella militare, i costi della guerra riducono le entrate, la produzione di materiale bellico spazza via tutto il resto, non ci sono più investimenti e si rischia una forte inflazione.

Al presente, l’Italia come il resto d’Europa, sta vivendo una fase di stoccaggio, di scorte probabilmente a causa della dipendenza energetica dalla Russia

In vista di varie prospettive, occorre fare chiarezza.

di Marino Ceci

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