Associazioni anti violenza violente: questa la realtà trascurata perdendo tempo a dipingere panchine

Come ogni anno, la lancetta dell’orologio si fa rossa, sull’ora, sul giorno che ricorda, quasi a far sembrare retorica la ricorrenza che a tutti i costi commemora il dolore delle donne che hanno perso la vita a causa della violenza o che sono sopravvissute dentro troppe cicatrici, sia visibili che invisibili, dignitosamente in silenzio, perché a far rumore pare sia sempre la moda della memoria o il simbolo inneggiato come un logo. Poi ci sono i nomi, quelli freschi di zecca, quelli delle vittime, tanto richiesti da alcuni programmi televisivi o sui quali sguazzano scrittori sciacallo, pronti ad usare tutto pur di farsi notare con la copertina di un libro da promuovere. 

Come ogni anno i telegiornali riesumano le vittime di violenza, con quella strana flemmatica rappresentazione teatrale, a metà tra l’induzione alla commozione e il perbenismo dei sentimenti. Un oltraggio che nemmeno le vittime riescono a far notare, poiché stanche di perdere tempo dentro lotte inutili, consce che la loro faccia si ritrovi dimenticata, accanto a quella dei carnefici vip, morbosamente esibiti dai mass media.

In tutto ciò, a fare da cornice a questo scenario di razionale follia, ci sono le associazioni contro la violenza, numerosissime, alcune delle quali purtroppo si comportano come collezionisti di figurine (le vittime), parlando di statistiche e numeri, presso i convegni che presiedono e per i quali c’è chi percepisce denaro da destinare non si sa bene a chi.

In sintesi, le vittime di violenza che sopravvivono al dolore tutti i giorni, quindi anche al di fuori della lancetta rossa che colpisce il giorno ed il minuto della tanto ricercata ricorrenza, sono costrette a subire i simbolismi, come il Cristo crocifisso festeggiato attraverso il panettone. Il paragone regge bene, verrebbe quasi voglia di sorridere, se pensiamo alle troppe donne crocifisse, ricordate in due o tre occasioni all’anno.

Ritornando alle enigmatiche figure che pilotano le associazioni anti violenza, non si può fare a meno di notare che talvolta non sono professioniste, non sono persone preparate, ma semplici donnette o omini che hanno pagato una serie di marche da bollo, aprendo in questo modo realtà di fatto inesistenti che offrono supporto alle vittime soltanto per ricavarne risultati di altra natura. Ve ne è una in particolar modo, che dilaga  ormai da alcuni anni tra social e qualche programma televisivo, per incantare le persone e far credere a chiunque di essere una paladina che sacrifica la propria esistenza per le categorie deboli.

Ci si rende conto di come spesso le redazioni dei programmi televisivi accolgano chi chiede un invito, fidandosi dell’apparente buonafede o approfittando di un contenuto da portare in studio per riempire  tempi televisivi.

Purtroppo le persone che stiamo tentando di portare alla luce, sono soggetti  difficili da inquadrare dal punto di vista legale, intanto perché cambiano spesso la loro ragione sociale e poi perché fare i disonesti resta pur sempre una professione, anche se a farne le spese sono le vittime che hanno in questo caso scritto alle redazioni dei più noti programmi satirici, per essere aiutate, senza ottenere risultati. Nel frattempo le vittime delle associazioni fantasma aumentano sotto lo sguardo di persone affrante, arrabbiate, impotenti, che non soltanto non si ritrovano difese, ma che subiscono perfino minacce e ritorsioni.

Il caso Paola Caio è tra i più noti, ovvero quello di una donna cui venne uccisa la figlia a calci e pugni, in seguito adescata da una associazione anti violenza di Roma, presieduta da una donna senza né arte né parte, che in un primo momento l’ha illusa offrendole il suo sostegno, ma che successivamente ha iniziato a perseguitarla, sia attraverso post su Facebook, sia facendo scrivere articoli contro di lei, accusandola di essere una stalker.

Ci si domanda a cosa servano le scarpette rosse o le panchine dipinte, quando nessuno ha ancora fermato quella persona che ha per anni dilaniato Paola Caio, addirittura denunciandola per ben due volte, nonostante venisse prontamente assolta. Ci si chiede cosa aspettino quei programmi che si occupano di smascherare gli imbroglioni, a togliere a certe persone il potere di ferire chi di cicatrici ne ha già troppe. Danneggiare una vittima di violenza, lucrare su di lei chiedendo donazioni che finiscono soltanto nelle tasche del tesoriere dell’associazione stessa, minacciarla di tacere e innescare atti persecutori nei suoi confronti tramite diffamazione a mezzo stampa, è un comportamento gravissimo che va denunciato.

Quelle lancette sulla ricorrenza non possono e non devono essere oggetto di strumentalizzazione con scopi narcisistici e millantatori, come ancora sta accadendo.

Dunque lo sguardo ricada sugli impostori allo sbaraglio che fanno uso delle associazioni per guadagnare soldi sulla pelle delle vittime di violenza.

Va detto che certe associazioni  possono essere lesive anche per l’immagine di quelle vere, che hanno obiettivi umanitari reali, ma che rischiano di precipitare nel calderone del cattivo nome generalizzato.

Lo sguardo non si fermi sul simbolismo della scarpetta o della panchina, ma sul volto taciuto dell’impostore che non è meno dannoso di chi uccide. Vanno riconosciuti, fermati e arrestati, i falsi rappresentanti delle associazioni anti violenza,  per la giusta tutela delle vittime come Paola Caio e come molte altre che si ritrovano risucchiate in questo assurdo vortice.

Le scarpe e le panchine non servono a niente, senza la capacità di intuire  chi, professandosi benefattore delle vittime di violenza, in realtà le distrugge goccia a goccia, nella più ingiusta, irrispettosa, offensiva, vergognosa omertà.

Impariamo la verità e soprattutto rispettiamola, come vorrebbe Monica, la figlia di Paola, oggi un angelo tra gli angeli.

 

Eleonora Giovannini

 

 

 

 

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