Sono conosciuti in Occidente come i dervisci danzanti o roteanti e fanno parte dei circuiti turistici nei viaggi in Turchia. Spesso si possono ammirare anche in giro per il mondo, con i loro alti copricapi simbolici e le ampie gonne bianche che si schiudono nella euforia della danza, ma non sono semplici ballerini, sono i seguaci della Maulawīya, una delle più antiche tarīqa o confraternite musulmane, fondata dal mistico persiano Ğalālu’d-Dīn Rūmī (morto a Konya nel 1273), autore di un numero enorme di opere in prosa e poesia, conosciuto con l’appellativo di maulānā (nostro signore). La loro danza, dichiarata dall’Unesco bene immateriale dell’Umanità, è, quindi, una vera e propria cerimonia spirituale attraverso la quale gli adepti tendono a congiungersi con Dio, ad annientarsi in Lui distaccandosi dalle passioni, dai beni e dai piaceri del mondo. Mevlana usava dire “Ci sono tante strade che portano a Dio. Noi abbiamo scelto quella della danza e della musica“.
Il 17 dicembre viene commemorato il giorno della sua scomparsa con varie cerimonie in tutto il paese e, in particolare, a Konya dove l’anniversario viene festeggiato per svariati giorni.
Il nome derviscio viene dall’arabo e dal persiano e significa povero, infatti gli adepti vivono in povertà tanto da essere considerati i francescani del mondo islamico.
La loro danza vorticosa è un vero e proprio rito al quale partecipano un gruppo di musici e cantanti, il Maestro della confraternita, che ha la funzione di qutub (polo), e i danzatori con il loro capo. Solo dopo aver digiunato e meditato per molte ore il danzatore può partecipare al rito. La cerimonia è divisa in varie fasi durante le quali si recitano inni al Profeta e versetti del Corano, mentre si susseguono rulli di tamburo e suoni di flauto (ney). Il sema o danza inizia con l’ingresso dei dervisci (sono diciotto nel rito completo del 17 dicembre a Konya) vestiti di un manto nero, simbolo dell’ignoranza e della materia, sotto al quale si cela l’abito bianco che rappresenta la luce e il distacco dall’Ego. Nessun altro colore è ammesso e i partecipanti sono uomini, nonostante ci sia stata un’apertura verso le donne. Il Maestro ha un caratteristico copricapo avvolto dal turbante nero (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la pietra tombale. A passi lenti, con le braccia incrociate, essi percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte. Ha inizio, così, la fase più suggestiva della cerimonia dove ogni movimento ha un proprio significato intrinseco simbolico. A uno a uno i danzatori si dirigono verso il Maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo, cominciano a roteare su se stessi e, contemporaneamente, dopo aver allargato le braccia, attorno alla sala, la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, quella sinistra volta alla terra per dispensarne a tutti i presenti. Così ruotano, spesso in stato di trance, per raggiungere l’estasi, da destra a sinistra, come gli atomi, i pianeti, il pensiero, sulla punte delle prime due dita del piede sinistro con un ritmo che diventa sempre più incalzante e veloce mentre le ampie gonne bianche si allargano in maniera evanescente.
Il sema si conclude con la lettura del Corano e specialmente dei versi della Sura 2:15 (“A Dio appartiene l’Oriente e l’Occidente e ovunque vi giriate siete di fronte a Lui. Egli è immenso, onnisciente”), mentre un delicato inchino simboleggia la piena sottomissione al potere divino.
Bruna Fiorentino