La Calabria, terra di mare e di montagne, di alture e quiete è bella ma è complicata ed è forse per questo motivo che i calabresi la amano ancora di più. Ci vuole forza e coraggio per scegliere di non rassegnarsi all’andamento delle cose e figurarsi se poi si decide di sovvertire l’ordine voluto dalla ‘ndrangheta. E’ quello che ha fatto Maria Teresa Morano, oggi mamma, moglie, architetto attenta all’etica della professione e volontaria impegnata per incoraggiare giovani ed imprenditori a non demordere.
Tutto ebbe inizio una sera di fine estate del 1992, quando Maria Teresa tornò a casa e lesse la preoccupazione sul volto dei suoi genitori. Quel giorno la spensieratezza giovanile fece il giro di boa e imboccò una strada diversa. A Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, i ragazzi commentavano i fatti di cronaca: c’era una cruenta guerra criminale che lasciava molti morti a terra, innocenti e non. La città era stanca. Crescevano con la consapevolezza di abitare in un paese difficile ma le cose venivano guardate con un legittimo distacco. In fondo, per sostenere il rischio continuo di essere tuo malgrado travolto dalla violenza, devi inevitabilmente sdoppiarti. E’ una difesa necessaria per la tua salute mentale. Ed era così anche per Morano, fino a che gli ‘ndranghetisti divennero tsunami. L’azienda di famiglia, la MCM specializzata nel settore della metalmeccanica, era stata presa di mira. L’immediata reazione fu di paura e disagio. “Ci avevano chiesto 50milioni di lire che non avevamo ma ci rendevamo conto che pagando saremmo passati dall’altra parte. Chissà quante bombe, attentati, armi, agguati ed oppressioni avremmo dovuto sopportare. Ma il mio, il nostro pensiero fu un altro: mi chiesi infatti quante bombe, attentati e altri delitti con quei soldi avremmo poi finanziato”, ricorda Morano.
E allora la denuncia. Fu fatto tutto con estrema cautela e riservatezza. Erano come i carbonari, perché sebbene si rendessero conto della rivoluzione che stavano mettendo in atto, sapevano anche che ogni azione doveva essere ponderata e tenuta coperta dal riserbo. La rivoluzione venne guidata dalle donne, mogli, figlie, sorelle che incoraggiarono mariti, figli e fratelli. Maria Teresa Morano aveva solo 24 anni e sarebbe stato comprensibile avere un tentennamento ma non indietreggiò. Non lo fece nessuno di quei primi 12 imprenditori, commercianti, artigiani che dopo la denuncia, dopo il processo hanno costruito il domani. Fu un percorso collettivo, dinanzi al quale molti reagirono ed altri si allontanarono. Ma la piena della ribellione non poteva arrestarsi e si arrivò alla costituzione di un’associazione antiracket, proseguendo con un’azione capillare di riscatto.
La scelta di quella giovane donna di denunciare il racket è stata giusta. L’azienda di famiglia è cresciuta riuscendo a diversificare anche il ramo di impresa. La MCM che era nata nel 1997 come azienda metalmeccanica specializzata nella progettazione e costruzione di macchine e carpenteria metallica, nel 2003, ha cominciato a dedicarsi alla produzione di parti e componenti per bancomat e casse continue, grazie anche all’impulso del fratello di Maria Teresa, Domenico Morano. Quell’azienda che la ‘ndrangheta avrebbe voluto far sua è libera, progetta e costruisce prodotti e soluzioni per la sicurezza bancaria diventando un partner delle tre aziende leader del mercato dei bancomat in Italia e nel mondo.
Gli anni sono trascorsi e Maria Teresa Morano è sempre di corsa fra famiglia, amici, lavoro, giovani da incontrare e guidare, convegni da tenere, lezioni di cittadinanza attiva da condividere. E’ donna ora, sorride e si emoziona dinanzi all’impegno dei ragazzi, quel motore dall’inesauribile carburante che si chiama gioventù la inorgoglisce. E ha ragione.
Tina Cioffo