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Giuliano Tucci deportato nel campo di lavoro della città polacca di Torn


Per non dimenticare il periodo più buio della storia dell’umanità e per tramandare alle nuove generazioni il significato dell’amore verso il prossimo, dell’accettazione della diversità, della forza della democrazia. Una tragedia immane che non dovrà più ripetersi sulla faccia della terra. Con questo preciso scopo abbiamo intervistato il signor Giuliano Tucci testimone diretto della ferocia nazista testimonial nelle scuole di un percorso didattico che ha permesso a numerosi studenti di entrare maggiormente nelle vicissitudini che hanno caratterizzato gli anni della propaganda nazista e della consequenziale costruzione dei fantomatici campi di sterminio. Gli studenti hanno ascoltato con grande attenzione la testimonianza del signor Tucci che grazie ad un linguaggio molto semplice e diretto è riuscito a far rivivere, seppur in parte, i suoi due anni di deportato all’interno del campo della cittadina polacca di Torn.

Quando ha deciso di abbracciare il credo dell’esercito italiano?

A diciannove anni, subito dopo aver terminato la scuola. All’epoca i giovani erano forviati dalla propaganda nefasta nazista. Tutti i giovani erano attirati dalla fanfara, dalla bandiera e dal dover difendere la patria dal nemico ebreo. Guardavo con una certa superficialità i miei compagni di scuola che non avevano fatti propri i dettami della legge nazista. All’epoca, addirittura, c’erano dei manifesti che incitavano all’odio verso il diverso. Una propaganda che subito, però, si rivelò ampiamente falsa. Dopo appena quindici giorni mi accorsi che ci avevano riempito la testa di grandi bugie e falsità. Noi giovani dell’epoca non eravamo per nulla a conoscenza dei lager e del dolore che c’era al di la dei fili spinati. Ero un soldato semplice dell’esercito italiano che è stato spettatore di quello che è successo che non ha visto ne fatto gesti eroici ma è stato solo testimone dell’atrocità umana. Per fortuna la verità non è rimasta prigioniera ed è uscita fuori dai campi di concentramento dove il dolore è maturato dietro il reticolato

Nei soldati italiani, dunque, iniziava a maturare un senso di ribellione ai dettami nazisti e fascisti?

Certamente. L’episodio che diede il via alla ribellione e alla resistenza dei soldati italiani contro il nemico tedesco si verificò nell’isola greca di Cefalonia. Con estremo coraggio gli ufficiali e i soldati presenti presero la decisione di porre resistenza e di combattere i tedeschi. Un gesto coraggioso che però gli costò la vita. I tedeschi, infatti, fucilarono tutti i militari italiani. L’unico sopravvissuto di questa strage fu un ufficiale, Carmine Santoro, che oggi ha 83 anni e vive a Campobasso ed è stato mio collega alla Prefettura di Campobasso.

Come mai è stato deportato?

Eravamo dei pezzenti che volevano fare la guerra ai potenti. Man mano che passavano i giorni cresceva in me un senso di ribellione rispetto a tutto quello che ci avevano detto ed imposto dall’alto. L’odio verso il “diverso” si stava tramutando in amore verso il prossimo. Proprio per questo ero visto con sospetto nell’ambiente. Il primo settembre del 1943 ero ad Atene insieme ai miei compagni di sventura, a pochi giorni dall’otto settembre, giorno dell’armistizio. Eravamo stati lasciati al completo sbando dai nostri superiori e senza nessun tipo di disposizione. I tedeschi approfittarono di questo momento di sbandamento della nostra truppa e ci ordinarono di consegnare le armi con la promessa di rimpatriarci in Italia. Ma così non fu. Ci fecero salire sui carri bestiame di un lungo treno ed iniziammo a viaggiare lungo l’Europa. Stipati in piedi peggio degli animali, senza acqua, senza cibo, abbiamo viaggiato per giorni. Ad un certo momento del viaggio i tedeschi hanno chiuso tutte le finestre dei vagoni per non farci vedere il tragitto. Al termine ci siamo ritrovati a scendere ad alcuni chilometri dal campo di sterminio di Auschwitz e più precisamente nella città polacca di Torn dove per un puro caso del destino è nato Copernico e dove è stata sepolta la salma del colonnello garibaldino Lullo che ha contribuito alla liberazione della Polonia dal predominio russo.

Si ricorda il suo primo giorno nel campo?

Non lo potrò mai dimenticare! Era il 29 settembre del 1943 ed era il giorno del mio ventesimo compleanno. Figuratevi che un mio amico mi diede anche gli auguri dicendomi “cento di questi giorni”. Fu un giorno fortemente triste poiché eravamo tanti uomini abbandonati a noi stessi, prede e vittime della ferocia dei nazisti. Eravamo a pochi chilometri da Auschwitz, ma a differenza di Auschwitz il nostro era un campo di lavoro.

Che differenza c’è tra un campo di concentramento ed uno di lavoro?

Nei campi di concentramento, oltre a fare la cosiddetta selezione, c’erano tutti quei deportati che erano in attesa di essere destinati a qualche campo di lavoro. La manodopera tedesca era decisamente molto scarsa e i prigionieri venivano impiegati in tutti i settori, dall’industria all’agricoltura e così via. Nei campi di lavoro, invece, erano rinchiusi i deportati che già erano impiegati nei lavori più pericolosi, più pesanti e più umilianti.

Quale era il suo compito nel campo di Torn?

Noi eravamo impiegati nelle miniere di carbone. Ogni giorno dal campo di Auschwitz giungevano nuovi ragazzi e uomini che si univano a noi per il lavoro nelle viscere della terra. Ogni giorno vedevo ragazzi della mie età che si erano trasformati in “crucce con i panni addosso”, ombre che camminavano nel fango. Tutto sommato mi ritenevo fortunato perché lavoravo in miniera perché ero al coperto anche se i pericoli e gli incidenti erano all’ordine del giorno.

Come si viveva in un campo?

Eravamo delle pecore portate al macello. Per i tedeschi noi non eravamo degli uomini ma dei semplici numeri o meglio dei semplici “pezzi” così ci definivano ogni volta che ci contavano. La giornata iniziava molto presto, alle cinque del mattino. Ci contavano per ore e ore fino a quando qualcuno di noi non cadeva. Uomini che cadevano come pere secche, fantasmi che camminavano che si lasciavano vincere dalla fatica immane e dalla fame. La fame era l’ossessione quotidiana, diurna e notturna, di ognuno di noi. Non potete nemmeno immaginare cosa vuol dire avere fame in quel modo. Ognuno di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere un pezzettino di pane. Di notte i nostri sogni erano costellati da incubi di pranzi che non saremmo mai riusciti a fare. Eravamo ridotti allo stremo delle nostre forze sia fisiche sia psichiche perché per i nostri carnefici non avevamo valore, tranne quello di schiavi da lavoro. Avevamo dei dolori allucinanti anche mentre camminavamo perché i muscoli si erano del tutto asciugati e le nostre ossa ci dolevano in continuazione. Le ginocchia apparivamo molto grandi solo perché erano più evidenti le ossa del ginocchio rispetto a quelli della gamba. Spesso si dice che si puzza di fame ed è vero perché il continuo digiuno provoca un alito nauseabondo. Puzzavamo talmente tanto che ci riconoscevano da lontano.

Quale era la vostra razione quotidiana di cibo?

Una scodella della cosiddetta “sbobba”, una sorta di minestra cotta con qualche foglia di cavolo e alcuni filamenti secchi di rape, gli scarti della lavorazione delle barbabietole da zucchero. Un pezzo di pane che dovevamo dividere in nove persone. Questo era il menù giornaliero che doveva bastare per ventiquattro ore. Per dividere in maniera equa il pane avevano ideato un sistema. Otto di noi si ponevano di spalle ed uno di noi a sorte decideva a chi assegnare uno dei nove pezzetti per non scontentare nessuno.

Ci saranno stati sicuramente episodi di egoismo ma anche momenti di solidarietà tra voi prigionieri , non è vero?

Vi posso raccontare due episodi. Un mio caro amico, maestro di scuola, un giorno barattò il suo unico cappotto per un tozzo di pane che divise con me. E’ stato un gesto di solidarietà che non potrò mai dimenticare anche perché quel mio carissimo amico non è stato fortunato come me che sono riuscito a tornare a casa. Io stesso, in miniera, ho aiutato un mio compagno di sfortuna a lavarsi i vestiti dato che si era rotto una mano.

A quali indicibili torture è stato sottoposto?

Noi tutti eravamo alla mercé dei nostri carnefici. Figuratevi che oltre al controllo dei soldati eravamo tenuti d’occhio anche dai cani. Come ho detto in precedenza venivamo contati più volte al giorno e con qualsiasi condizioni meteorologiche: sotto la neve, sotto la pioggia, al freddo più intenso. Se qualcuno di noi non rispondeva all’appello o cadeva per mancanza di forze i cani erano addestrati a saltarci addosso e a sbranarci. I tedeschi ci avevano assegnato un numero che dovevamo imparare a memoria ed in tedesco altrimenti potevamo essere bersaglio di indicibili torture o, addirittura, perdere la vita.

Non si era al sicuro neanche di notte nelle rispettive baracche, vero?

La fame e la disperazione portavano a pensare e ad agire non più come esseri umani ma come delle bestie. Di notte si dormiva vestiti, senza materasso e senza coperte e con le scarpe ben allacciate perché potevano essere oggetto di furto. Le scarpe facilmente si rompevano e quindi tutti erano alla ricerca di una possibile soluzione. Eravamo talmente debilitati che anche le scarpe ci sembravano pesantissime.

Avete mai avuto paura di morire?

Certamente, ogni giorno! Avevamo fatto un patto con la morte, che ci doveva venire a trovare il più tardi possibile perché confidavamo nella vita. Nel campo e in miniera non avevamo nessun tipo di assistenza. Non ho avuto un cambio di biancheria per due anni e non ho potuto accedere a nessun tipo di assistenza sanitaria. Ma quello che mancava a tutti noi, anche se di differenti credi religiosi, era un sostegno spirituale. In alcuni momenti, quando riuscivamo a distogliere la sorveglianza dei tedeschi, ci riunivamo nella parte più profonda della miniera per recitare il rosario. Allo stesso modo, secondo i rispettivi credi, facevano anche gli ebrei e gli altri deportati. In quei momenti nelle viscere della terra ci sentivamo tutti uniti, tutti fratelli, uniti dalla speranza della fede e della comune spiritualità. In quei momenti ho compreso cosa vuol dire essere un popolo. Si perdeva il senso unitario e si ritrovava quello di una comunità di uomini e non di numeri.

Insieme ad altri suoi compagni di campo avete anche detto no ad una proposta dei tedeschi che poteva far uscire definitivamente dall’incubo del campo, perché?

A tutti noi prigionieri soldati ci avevano proposto di abbracciare l’ideologia nazista e di passare nelle fila dell’esercito germanico con la promessa di uscire definitivamente dal campo e di essere rimpatriati in Italia. All’unisono abbiamo detto di no! Diversi sono stati i motivi che hanno portato ciascuno di noi a dire di no. Per quanto mi riguarda posso dire che dopo la mia presa di coscienza non volevo più sentire parlare di guerra. Il mio è stato un si alla vita e al rispetto della diversità umana. La guerra è la cosa peggiore che possa esistere sulla faccia della terra e riesce a tirare fuori il peggio da ogni uomo che vi partecipa. L’odio è il sentimento più deleterio che possa albergare nel cuore dell’uomo. La libertà si raggiunge solo quando nel cuore si fa spazio solo all’amore verso il prossimo.

Dove era il 27 gennaio 1945 quando si sono aperti i cancelli di Auschwitz?

Ero nella mia baracca nel campo di Torn. Da una piccola finestra vidi che non c’erano più le guardie sulle torrette e nei pressi del cancello principale. Nei giorni scorsi avevamo sentito nettamente il rumore dei bombardamenti dei russi che si avvicinavano sempre più alla nostra zona. Allora compresi che i soldati tedeschi erano scappati. Proprio in quel momento riuscii a vedere un soldato tedesco all’incirca della mia età con gli occhi sbarrati dalla paura che trascinava invano il suo fucile nella neve. Aveva una grande paura di essere imprigionato dai russi e di passare da carnefice a vittima. Vi posso giurare che ho provato una grande pietà e compassione per quel mio coetaneo. Ed è proprio in quel momento che si è rafforzato in me il sentimento che una simile vicenda non doveva più ripetersi e che la guerra non è mai giusta, anzi…

Quale è il messaggio che vuole lasciare alle generazioni moderne?

All’interno dei campi è nato il seme della libertà, il seme della speranza, il seme della democrazia. A voi giovani noi anziani lasciamo il compito di farlo germogliare e farlo crescere per renderlo una pianta robusta e matura. Il seme della democrazia va annaffiato con amore e con grande entusiasmo e non con l’odio. Conoscere il passato, le brutture del nazismo deve servire a non commettere gli stessi errori ai nostri giorni. Si deve continuare a ricordare il passato per non dimenticare, per non lasciar passare nell’oblio a quali livelli possa arrivare la brutalità umana quando ci si rifà a ideali distorti che puntano a denigrare chi è semplicemente diverso da te. Sappiate essere voi stessi ambasciatori di pace e di amore in un mondo che non deve dimenticare quanto accaduto circa settant’anni fa. Quello che possiamo fare noi che siamo riusciti a sopravvivere alla scelleratezza nazista è di testimoniare quanto avvenuto nei campi per dar voce anche e soprattutto a tutti i nostri amici, parenti, conoscenti, semplici compagni di sventura che non sono riusciti a tornare a casa e che hanno lasciato spegnere la loro vita in quei luoghi simili all’inferno. Fate in modo che la speranza, la fede non vengano mai meno e che le nuove generazioni non cadano nello stesso madornale errore nel quale sono cadute le generazioni passate. Un essere umano è un essere umano, ne un numero, ne un pezzo ne una cosa. La vita è sacra e deve essere salvaguardata e tutelata a tutti i costi, sia la propria sia quella del proprio vicino.

Stefano Venditti

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